Mi capita a volte di pensare a quanto sia faticoso per una/o psicologa/o sentirsi veramente tale, cioé sentirsi operativa, utile, efficace (e soprattutto pagata!).
OK, OK la immagino già la solita replica… sincera per carità ma – non me ne vogliate – sentita tante, troppe volte… la passione, e aiutare gli altri è un dovere e la vostra è quasi una missione, e blablabla…
Oh, sarà un caso ma con buona pace del giuramento di Ippocrate sono ben pochi i medici che non definirei eufemisticamente benestanti, e Florence Nightingale ha fatto quello che ha fatto anche perché aveva una famiglia ricca alle spalle e tutte le infermiere che conosco fanno quel mestiere per portare a casa lo stipendio e non certo per emulare le protagoniste di certi filmetti scollacciati di qualche decennio fa.
Insomma, va ben tutto, ci sto anche a fare la mia parte nel presepe vivente della vita, ma perché diavolo deve toccarmi sempre a ME la parte di Simone di Cirene? A me che mi stanco subito anche a portare a casa i sacchetti della spesa e che le vacanze di Pasqua vorrei trascorrerle – più che in croce – in vacanza col mio fidanzato?
Vedo intorno a me moltissimi colleghi che annaspano, che si disperano, che fanno altri lavori “intanto che si diventa veri psicologi”. Alcuni tra loro non hanno alcuna idea di cosa li aspetta, ma non solo, non hanno nemmeno alcuna idea di cosa possono fare con la loro laurea. Altri invece entrano in una specie di letargo fatto di rassegnazione, confusione, analisi interminabili, autosvalutazione, che spegne lentamente le loro facoltà mentali orientandoli poi verso altre occupazioni, o verso una penosa ed eterna dipendenza verso i loro genitori… Ma come… Proprio noi psicologi, che dovremmo conoscere cosa vuol dire emanciparsi, sciogliere la dipendenza ci ritroviamo a dover affrontare il chiaro invito del “Medice, cura te ipsum” dovendo riconoscerci affetti da nuovi disturbi quali “l’invidia del portafoglio” del nostro genitore, che sostituisce la più nota e datata Invidia che già ben conosciamo. Altro che complesso di Edipo ed Elettra, qui a mamma e papà bisogna volergli tanto bene ed augurargli tanta tanta salute e prosperità, visto che sono quasi sempre loro a fornirci ancora vitto e alloggio.
Insomma, diventa impossibile rappresentarsi come qualcuno che lavora come psicologo, se per “lavoro” intendiamo solo “…attività umana diretta alla produzione di un bene, di un servizio o comunque a ottenere qualcosa di socialmente utile” e non anche “…occupazione retribuita; esercizio di un mestiere, di una professione, di un’arte”.
Penso al mio variegato percorso universitario, lasciato da pochi anni, ai corsi e corsetti (no, non intendo guepiere e bustier, cosa andate a pensare…!) svolti avidamente subito dopo l’università alla ricerca della “res” psicologica, del “Graal” che farebbe di noi un vero psicologo e mi rendo conto tristemente, mettendo insieme tutte queste sensazioni, che il problema centrale è proprio quello della formazione dell’identità professionale.
Alcuni nostri pazienti soffrono per le loro molte personalità, noi pagheremmo (e paghiamo…) per averne almeno una.
Diciamocelo apertamente cari amici: a chi frega di formare l’identità professionale di uno psicologo? Figuriamoci, se fossimo una società più laica e pragmatica, gli psicologi che escono a frotte dalle università comincerebbero a sperimentarsi da subito nei vari ambiti operativi.
Eh invece no! Troppo facile!
Non sei capace, non sei formato, non hai la specializzazione, non sei psicoterapeuta, quindi non sei un vero psicologo. E’ questo il refrain che si sente, e comunque è quello che abbiamo dentro. Tutto questo sembra fatto ad arte per mantenerci nel limbo dell’insicurezza che tradotto in economia spicciola suona più o meno come: la tua formazione proseguirà per altri 5-6 anni con un esborso medio pari a circa 20-25.000 euro a cranio, che moltiplicato per quanti siamo… fatevi due conti: un bel mercato di affamati della Verità Psy. E sopra gironzolano tanti, ma davvero tanti avvoltoi (e sarà pure che la mia parte “Willy il coyote” me ne ha fatti conoscere molti di avvoltoi). Capite ora perché non frega a nessuno formare dei veri psicologi??? Anzi, frega proprio il contrario: più sei incerto e impreparato e più paghi.
L’importante è che tu abbia sufficiente dimistichezza con gli strumenti della retorica per affabulare i tuoi genitori (si, sempre loro, che sospetti da anni si dicano che forse era meglio avere un figlio un po’ più citrullo – o un po’ meno intelligente, fate vobis – che a quindici anni mollava la scuola e andava a fare l’aiutante muratore e cominciava a guadagnare di suo, invece di te, che tra corsi, stage, master, post-lauream, full-immersion e cirillico vario hai speso una cifra pari al costo di un bilocale in centro e sei ancora in giro con la macchina di famiglia elemosinando i venti euro per farti una pizza con gli amici…)
Ma allora, scusate, se l’università non aiuta alla formazione dell’identità professionale a cosa serve? Se non usciamo da lì con 2-3 concetti in croce chiari su cosa significhi essere uno psicologo nella realtà sociale, perché mai nessuno se ne accorge e nessuno s’incazza o fiata? Sono io che ho le traveggole oppure l’imperatore è davvero nudo?
Eppure esistono gli psicologi bravi, formati a dovere, efficaci. E ne ho pure conosciuti, pensate. Da dove vengono fuori? E’ evidente che sono degli eventi imprevisti del sistema. Vai a veder bene, infatti sono quasi sempre persone che fanno strani “giri”, esperienze uniche, magari da autodidatta, con interessi particolari e non comuni.
Mentre qual è il “prodotto standard” delle nostre istituzioni/culture formative psicologiche (pre e post lauream)? Probabilmente un individuo inutile a sè stesso… e agli altri mi verrebbe da aggiungere di getto, se non fosse che oggi mi sento particolarmente buona. No, dai… proprio inutile no: forse qualcuno che non ha ancora imboccato la strada verso una sana e consapevole disillusione.