L’insopportabile pesantezza dell’essere (psicologhe)

Cari lettori, è da un po’ che non ci sentiamo. Perdonerete se la vostra Aisha s’è un po’ persa per strada, nel tempo. Ahimè, anzi no, che dico, beata-ammè, ho trascorso questo mesetto impoltrita nella mia lussuriosa pigrizia, godendomi i corteggiamenti dei molti e prestanti e insistenti ammiratori che hanno letto il mio libro e sono rimasti affascinati dal mio blog.

Ma delle mie piccanti avventure internettiane ve ne parlerò un’altra volta.
Riflettevo un po’ di giorni fa su quello che mi raccontò una volta una mia amica, testimonianza che poi ho riportato nel libro “Sognavo di essere Freud”, nel capitolo intitolato “Un’eroina da tragedia greca”:

[…] Ma la cosa che mi disturba di più sai qual è?
Che non riesco a tirarmi fuori da questi pensieri da vittima piagnona, da Ifigenia in Aulide post litteram. E lo sai perché? Perché mi sono accorta che noi psicologi tendiamo più di altre categorie a piangerci addosso. 
[…]

[…] Sai che ti dico Aisha? Io non ci credo molto, penso invece che tutto ciò sveli una nostra insicurezza, una sorta di loop rimuginativo e autocolpevolizzante, che poi è l’unica cosa che resta da fare nel momento in cui ci si sente impotenti.[…]

E semmai avessi avuto dei dubbi in proposito, il Fato bighellone e scanzonato affibbiatomi alla nascita ha ben pensato di ribadire il concetto con esempi pratici.

Esempi, sì… perché come dice la pubblicità “dù gust is megli che uàn” e così nell’arco di due giorni sono stata coinvolta in due episodi con due diverse protagoniste che hanno però lo stesso filo conduttore: la inutile e continua lamentazione.

Ora, chiamiamolo imprinting, chiamiamoli archetipi, chiamiamolo condizionamento culturale o coazione a ripetere, fatto sta che, scopro ogni giorno di più che anche nell’animo della più scafata manager in tailleur gessato, nell’intimo della più emancipata femminista, nei reconditi meandri della psiche della più razionale ed evoluta delle donne, c’è un posticino nascosto in cui, inestricabili come gramigna, ineliminabili come la polvere agli angoli delle stanze, implacabili come gli operatori di call-center che chiamano ad ora di pranzo, albergano loro. Sì, loro, proprio LORO… la Rossella O’ Hara di “Via col Vento”, la Jenny Cavilleri di “Love Story”, il mix soap-mitologico che mette insieme la sfiga in amore di Arianna e la tragica “disinvoltura” nei rapporti coniugali di Fedra, la Catherine di “Cime Tempestose” e una a scelta tra le sorelle March.

Personaggi e situazioni che, grazie agli studi scolastici, ai libri letti, ai film in televisione o al cinema, hanno più o meno consapevolmente creato una serie di sfaccettature nel nostro personale manuale intitolato “Essere donna: istruzioni per l’uso”.
Ogni torta che si rispetti non può essere priva di ciliegina, e quale succoso frutto se non una laurea in psicologia, glassato con la voglia di affermarsi e ulteriormente “insaporito” dal costante conflitto tra Eros e Psiche, è il migliore per decorare tutta quella stuccosa e stomachevole panna montata e renderla prontamente indigesta?

Ci siamo capite spero… Bene, fatte le necessarie premesse in cui ognuna di noi, seppur pronta a negarle finanche davanti al plotone di esecuzione, non può non riconoscersi, vi racconto cosa mi è successo.
Ordunque mi telefona Camilla, una mia amica, manco a dirlo, psicologa, e dal tono del saluto già capisco che è il caso che mi metta comoda, con succo di frutta e portacenere a portata di mano: sarà una telefonata luuuuuuuuunga lunga. Camilla è in crisi perché a suo dire il suo fidanzato non le riserva la considerazione e le attenzioni che dovrebbe. Tralascio il rapporto stenografico della telefonata perché vi voglio bene, vi dico solo che durante la telefonata è emerso che:
1- lo spregevole individuo che tanto malamente la trattava, non era esattamente il fidanzato (a meno che saltuari e frettolosi incontri volti solo allo scambio di reciproci umori corporali tra le lenzuola, non siano condizione sufficiente alla attribuzione della qualifica di “fidanzato: ragazzo che frequenta me e conosce la mia famiglia e ha intenzione di sposarmi”)
2 – il reato di “leso fidanzamento” sarebbe consistito nel fatto che “lui” è andato in giro per concessionarie a scegliersi la prossima automobile senza chiedere a “lei” di accompagnarlo.
Ora, come insegnano libri e canzoni l’amico dovrebbe essere la persona che sta dalla tua parte “a prescindere”, mentre la deontologia di uno psicologo impone comportamenti leggermente diversi nei confronti del paziente e così, quando l’amica il lacrime ti singhiozza: “Tu, da amica e psicologa, cosa mi consigli?” senti  dentro di te scattare un dilemma che quello di Amleto al confronto è più banale dello scegliere se zuccherare il caffè con aspartame o fruttosio (eh lo so, la prova costume incombe…).

Non bastasse Camilla, il giorno dopo è Liliana a richiedere la mia consulenza professional-sentimentale, anche stavolta il caso è dei più controversi e torbidi all’apparenza, un nodo di Gordio che un qualunque maschio (non necessariamente psicologo) avrebbe alessandrinamente risolto con un taglio netto comprendente una frase che comincia con “Ma vaf” e finisce con “ulo”… Ma noi siamo donne, amiche e PSICOLOGHE e quindi dove gli altri vedono una breve autostrada a quattro corsie, noi preferiamo scorgere intricati e tortuosi sentieri nella jungla del nostro inconscio. Liliana ha conosciuto un tizio in chat, il solito contatto brillante, scanzonato, simpatico e… sposato. Dalla chiacchiera alla battutina, dalla battuta alla allusione, dalla allusione alla proposta, dalla proposta all’invito a vedersi, per una conoscenza più biblicamente completa.
Al momento Liliana ha accettato poi però sono scattati i sensi di colpa, i dubbi, le perplessità: “lui” è un porco approfittatore o un fuscello sentimentale travolto dall’uragano dell’amore? E Liliana che dovrebbe fare, ascoltare le lusinghe dei sensi e gettarsi tra le sue braccia o negarsi sprezzante in rispetto di una Legge Morale che viene prima di tutto?

Dubbi legittimi e ricorrenti da che mondo e mondo, acuiti e resi dilanianti quando sottoposti da una psicologa ad una psicologa, creando un conflitto di interessi degno di un feutillon della belle Epoque.
E allora forse aveva davvero ragione il Principe Antonio de Curtis, detto “Totò” quando in una sua memorabile scenetta esaltava l’ignoranza

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