Basta un poco di zucchero…

Lo sapevate, cari lettori aishiani, che la nostra professione non ha delle vere e proprie “riserve professionali”? Oddio, non spaventatevi, non sto straparlando, non ho detto “riserve indiane”, ma riserve professionali, che non sono campi di concentramento per psicologi disoccupati (il governo però ci sta già pensando…), no, non si tratta di questo. Provo semplicemente a condividere con voi una tragica realtà poco nota ai più.

Dunque… Vediamo… come spiegare… Un qualunque lavoro, per essere svolto al meglio, richiede che venga stabilito quantomeno “chi” lo può fare e “come” lo deve fare, altrimenti si precipita nell’anarchia più totale, senza la salvaguardia di limiti e competenze…Giusto?? Ecco!Ma potevano, parlo dei colleghi alle alte sfere della politica professionale, ignorare la vocazione tutta italica di arrangiarsi? No! E potevano privarci della possibilità di vedere praticamente sperimentato in corpore vili il principio secondo cui una attività è “meglio saperla vendere che saperla fare”? Eh no… non potevano proprio!

Avviene così che la legge istitutiva della nostra categoria (Legge 56/89) definisce gli ambiti di attività dello psicologo, ma non certo in via esclusiva. Come a dire che se domani mattina alla mia parrucchiera – brava persona per carità, anzi tanto sensibile e carina –  venisse il guizzo di poggiare a terra prima il piede sinistro anziché il destro e avesse una folgorazione come San Paolo sulla via di Damasco, potrebbe mettere fuori dalla porta del suo bel negozio una targa con scritto “counselor esistenzial-tricologico” e potrebbe ricevere, tra una lozione ed un bigodino, un colpo di phon e una permanente, le confidenze delle attempate signore, delle leggiadre signorine o delle desperate housewife di turno, facendosi pagare un supplemento per il suo sostegno psicologico. Il tutto senza alcuna conseguenza e nessuna denuncia per esercizio abusivo della professione.

Dite che sto esagerando? Dite che sono la solita iperbolica?

Beh, guardatevi intorno e provate a contare tutti i nuovi “professionisti” della psiche, del benessere, gli psicominchi, gli psicopompi, i consulenti della zucchina impastellata e fritta, con suggestivi nomi o acronimi inglesi. Eccheccevò! Basta pagare qualche corso di tre-sei-dodici mesi ed il gioco è fatto. E sapete chi li tiene spessissimo questi corsi per la concorrenza? I nostri amati formatori psicologi.

Ma non finisce qui: avvocati che fanno i mediatori familiari, neurologi che ti sistemano la neurochimica per evitare lo shopping compulsivo o le dita nel naso, assistenti sociali che ti sanno ascoltare, filosofi che ti raddrizzano il senso della vita, architetti che ti sistemano il letto secondo le linee geomagnetiche, preti che ti portano  all’esorcista… l’elenco è infinito.

Senza un serio lavoro per la revisione del nostro articolo diventeremo ben presto come una specie protetta, ed allora invece di iscriverci all’Ordine sarà meglio iscriverci al WWF per davvero!

Avete mai sentito qualcuno dire: “Sai, io sono un po’ ingegnere, ti costruisco questo viadotto un po’ come se lo fossi” o qualcun altro: “Oggi mi sento un po’ cardiochirurgo, dai, accomodati sul letto operatorio che facciamo in modo di farti un po’ un trapianto”.

No, eh…

Ma allora come può accadere che chiunque (dicesi chiunque!) possa improvvisarsi e dirsi psicologo, ma non solo nelle riunioni di amici o durante le scampagnate domenicali, ma proprio nell’inventarsi una pseudoprofessione da pseudo-para-proto-similpsicologo, svolgerla (in genere al nero), non condividere una deontologia e non avere nessuna conseguenza legale?

Se le lacrime non fregassero in velocità gli sghignazzi ci sarebbe da ridere, vero?

Immaginate se la stessa cosa accadesse ad altre professioni…

Di questo passo troveremo in edicola un corso a dispense “Diventa anche tu un po’ psicologo in dieci lezioni!”, con allegato al primo fascicolo i primi pezzi del lettino da analista su cui far stendere il paziente e le istruzioni in DVD per il montaggio, ovviamente con l’approvazione dell’Ordine Nazionale, che garantisce la serietà del tutto.

Si dice che l’abito non faccia il monaco. Sarà… intanto a noi ci lasciano in mutande

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